di Marco Peroni (Adriano Olivetti, Gigi Meroni, 41 Colpi)
Ho ascoltato, letto con curiosità le reazioni che qui a Ivrea sono seguite alla visione della fiction Rai su Adriano Olivetti. In generale – almeno così mi pare di capire – chi ha promosso il film lo ha fatto in nome di un sano pragmatismo. Più o meno: in un momento tanto difficile per il Paese, è bene che si parli a tutti di una storia così luminosa, anche con un film per la tv che si rivolge al pubblico popolare della prima serata. Beh, su questo sono d’accordo anch’io. Quello che invece non mi è piaciuto del film è che la complessità di Adriano Olivetti non è stata sciolta in un linguaggio comprensibile, ma rimossa.
Il tentativo di Olivetti è stato quello dare vita a una comunità concreta che fosse l’esperimento pilota per costruire una terza via alternativa al capitalismo e al socialismo. Egli voleva tenere assieme in uno stesso organismo profitto e solidarietà, impresa e cultura, città e campagna, proprietà pubblica e proprietà privata, dimensione locale e dimensione globale, persino vita attiva e vita contemplativa. Tutte cose che prima di lui, e anche dopo di lui, sono apparse per lo più inconciliabili. In anni di guerra fredda, Olivetti sapeva già vedere che la soluzione dei conflitti sociali e ideologici non era da ricercarsi nel compromesso fra le forze, ma nella sintesi fra le idee. Quindi si mise a sperimentare soluzioni originali che, se allora lo condannarono alla solitudine intellettuale, oggi lo ripropongono in tutta la sua carica innovativa.
L’Adriano Olivetti che ci è stato restituito in televisione (lo dico con tutto il rispetto – e persino con la gratitudine – per il lavoro di ogni professionista impegnato nella realizzazione del film) mi è parso privo di questa tensione. Adriano Olivetti sentiva la sua missione come cristiana e socialista, cercava di unire il meglio delle due culture in un unico progetto. Nel film c’era invece parecchio del loro peggio, c’era il paternalismo da una parte (il rapporto con gli operai, la donna incinta abbracciata fra gli applausi) e la dietrologia dall’altra (gli americani che lo fanno uccidere da un sicario, dritto per dritto). Paternalismo e dietrologia ci fanno del male perché ci invitano a starcene buoni: nella speranzosa attesa di un nuovo supereroe, oppure nella disperata rassegnazione di chi tanto non sarà mai padrone del proprio destino.
Olivetti e la sua comunità invece sono una medicina efficace per entrambi i mali, possono responsabilizzarci, farci sentire protagonisti, aiutarci a immaginare nuove strade e camminare sotto nuovi cieli. Non è mica vero che per raggiungere il grande pubblico si deve mortificare la complessità, basta pensare al miglior cinema italiano, alla migliore canzone, alla televisione che ricordiamo. È il linguaggio, non il contenuto che si deve semplificare, altrimenti si rischia di venir meno all’imperativo che dovrebbe animare ogni buon divulgatore e cioè quello di servire invece che di servirsi. Il pubblico avrebbe capito eccome, a volergli e sapergli dire di più.
Le rinate Edizioni di Comunità ne sono una dimostrazione lampante: per la prima volta Olivetti non è più solamente studiato o celebrato, ma letto da decine di migliaia di persone in tutta Italia. Però penso anche che non bisogna prendersela troppo, perché proprio questi giorni in cui Adriano è ovunque ci fanno capire che sta succedendo qualcosa di più interessante: la fine della visibilità come valore assoluto, come obbiettivo supremo, come criterio guida. Sono passati pochi giorni dalla proiezione e paiono già mesi. Fra poche settimane sembreranno anni. Le scene, le immagini che abbiamo visto nel film su Olivetti precipitano nell’oblio alla velocità della luce mentre le idee che abbiamo letto sui suoi libri si fanno strada e prendono forma, alimentano processi nuovi e profondi. Contano i fatti, non le parole, diceva l’ingegnere. Figuriamoci le immagini. La televisione ormai scrive sulla sabbia. Forse stiamo uscendo dall’incantesimo degli anni Ottanta e qualunque iniziativa (anche politica, anche culturale, anche locale) che consideri la visibilità e il successo come fine e non come mezzo ci apparirà ancora più chiaramente per quello che è: una carnevalata.