Il destino dell’Europa

di Nicola Grigion

Presentiamo integralmente uno degli interventi ospitati nella riedizione di Etenesh, odissea di una migrante, di Paolo Castaldi con i colori di Giuseppe Morici, in libreria dal 3 settembre 2015.

Le immagini, come i fumetti, possono raccontare un’infinità di storie. Quelle degli sbarchi, sono diventate consuetudine.
In questi ultimi vent’anni ce ne sono passate davanti agli occhi migliaia, una dopo l’altra, in una sequenza quasi seriale. Talvolta l’obiettivo si è concentrato sulle braccia di un ragazzo allungate per afferrare le mani degli uomini della Guardia Costiera, altre sulla fiancata di un gommone come quello su cui ha viaggiato Etenesh, altre ancora sulla fragile maestosità di quei monumenti del mare galleggianti dove centinaia di corpi viaggiano stipati, oppure ha immortalato le file di salme stese sulla banchina del molo, coperte solo da squallidi sacchi di plastica. C’è una vera e propria letteratura fotografica, che attraverso una miriade di scatti potrebbe raccontarci un intero decennio di vicende personali e collettive che si sono intrecciate nel Mediterraneo.

Eppure quelle foto scorrono sempre troppo veloci per lasciarci il tempo di coglierne i particolari. Se invece avessimo la pazienza di guardare uno a uno i volti delle donne e degli uomini che, ammassati
su quei natanti, sembrano tutti uguali, potremmo forse scoprire altro oltre alle loro fisionomie. Guardarli è un po’ come misurare lo stato di salute dell’Africa, scoprire il groviglio delle sue diverse contraddizioni. Guardando il volto di una donna eritrea potremmo per esempio accorgerci che la sua pelle porta ancora le tracce del conflitto cronico che affligge il Corno d’Africa. Quei segni raccontano le violenze di una dittatura sanguinaria e si sommano alle nefandezze compiute dalle milizie libiche e dai trafficanti incontrati durante il viaggio.

Lo sguardo irriverente di un ragazzino somalo poco più che sedicenne, così diverso da quello dei suoi connazionali che percorrevano la stessa rotta qualche anno fa, ci ricorda invece che da Mogadiscio si parte anche senza una meta precisa. Nati e cresciuti in mezzo alle armi, alla certezza di un fucile i giovani preferiscono l’incertezza di un futuro vagabondo in Europa. Tra loro, ci sono i sorrisi timidi dei ragazzi e delle donne del West Africa. Vengono dal Mali, dal Ghana oppure dal Togo, dove partire vuol dire prima di tutto affrancarsi dalla miseria, oltre che sottrarsi a guerre tribali e conflitti silenziosi per il Potere. Alcuni partono ancora dal Senegal con la pretesa di ripercorrere i fortunati passi di chi li ha preceduti, con ancora negli occhi le immagini degli agi che solo chi è tornato a Dakar dopo essere stato dall’altra parte del mare sembra potersi permettere. Il loro viaggio verso nord passa attraverso la Mauritania e l’Algeria per poi proseguire verso il Marocco, per incontrare l’enclave di Ceuta e le reti spinate che dividono migliaia di persone dalla Spagna. Oppure si muove in direzione di Agadez, nel Niger, dove incontra la strada di chi viene dalla Nigeria, dal Camerun o dal Chad, per poi salire su uno dei mille camion che attraversa il deserto passando dal corridoio centrale del Sahara, per raggiungere il sud della Libia in direzione Sabha e poi arrivare a Tripoli. L’irruenza dei nigeriani potrebbe invece ingannare. Chi parte dal paese più povero e popoloso dell’Africa Centrale potrebbe essere in fuga dalle violenze di Boko Haram, gli jihadisti che insanguinano il nord, ma anche da quelle dell’esercito governativo che in questi anni si è reso responsabile di crimini molto simili a quelli dei miliziani. C’è chi ha perso tutto nella diatriba per la conquista dei giacimenti di petrolio e altri combustibili fossili che, oltre allo stato del Delta, avvelenano anche il mondo. Ma puoi anche trovare chi ha lasciato l’Edo State per rincorrere la speranza di maneggiare ricchezza facile, oppure puoi scoprire che le reticenze di un giovane del sud nascondono una persecuzione, fisica oltre che giuridica, contro l’omosessualità.

Tra le donne non è semplice distinguere chi ha abbandonato il villaggio per sottrarsi alle violenze comunitarie da chi è partito con la promessa di un lavoro per poi ritrovarsi imbrigliato nella tratta dei corpi nel mercato del sesso. Spesso c’è chi è vittima dell’una e dell’altra ingiustizia. Il crocevia, per tutti, è quasi sempre la Libia. Qui, i destini dei migranti sub-sahariani incontrano i giovani traditi
dalle primavere arabe. Hanno visto le loro speranze di cambiamento fallire insieme alle rivoluzioni e i loro paesi affondare in una vibrante instabilità che domina tutto il nord Africa. Non tradisce invece la fierezza di un padre siriano, che con tutta la famiglia ha raggiunto la Libia percorrendo un rotta innaturale, costretto dai muri della Grecia, della Bulgaria e dell’Ungheria, a passare per la Giordania per finire in Egitto, oppure ad atterrare con un volo ad Algeri per poi attraversare il confine e muoversi verso il mare di Zawarah. Un osservatore attento, poi, potrebbe andare oltre e scorgere tra la pieghe di alcuni volti l’esperienza di viaggi che non hanno avuto una sola direzione, ma sono stati più volte interrotti da una miriade di tappe e passi a ritroso, fatti di respingimenti e dazi, di prigionie e riscatti. Perché in Africa ogni confine ha un prezzo. Lo impongono le regole dettate dagli stati europei, che con gli accordi per i rimpatri e per il controllo delle frontiere mettono in moto un giro d’affari secondo solo a quello del traffico di droga.

La politica dell’Europa si allunga ben oltre le acque territoriali del Mediterraneo, proiettando la sua ombra nel mezzo del deserto, dove in nome del controllo dei confini un militare chiede il pedaggio
ai viaggiatori minacciando l’incarcerazione, o un trafficante fa lievitare il prezzo per un posto su un convoglio.

Eppure pagare ed affidarsi ai mercanti di uomini rimane l’unico modo per raggiungere l’Europa. Per alcuni migranti non è nulla di più che un servizio, per altri si trasforma in un incubo. Puoi essere venduto e schiavizzato, picchiato e riportato al punto di partenza per poi essere liberato e immesso nuovamente nel mercato delle vite, dei sogni e dei desideri.

Intanto, colpo su colpo, le rotte rispondono alle strategie di controllo dell’Europa, cambiando strada come i rivoli d’acqua che sulla roccia trovano sempre un modo per superare l’ostacolo. Come accade per chi, raggiunto l’Egitto da sud, alla rotta del mare che passa per la Libia preferisce quella che porta tra le montagne del Sinai e raggiunge Israele.
Ma c’è anche chi si vede di rado. Come chi fugge dalla violenza dell’ISIS e dall’intricato scenario del Medio Oriente: gli afghani, che passano più volentieri per la rotta balcanica; i kurdi, gli irakeni e migliaia di siriani, che dopo essere passati per qualche campo profughi preferiscono attraversare il Mediterraneo per il Mar Egeo, direttamente dalla Turchia o dalla Grecia.

Quelle foto richiedono attenzione. Perché visti da questa sponda del Mediterraneo, una volta sbarcati, i volti di quelle donne e di quegli uomini vengono immediatamente chiamati a vestire l’abito del profugo o del clandestino. Vesti che distolgono la nostra attenzione dalle tracce preziose che quei volti si portano appresso. Invece potrebbero aiutarci, oltre a conoscere le storie delle persone, a comprendere di più un continente che mai come ora intreccia il suo destino a quello dell’Europa. E forse, a capire più a fondo l’Europa stessa.

Il mondo intero conta oggi poco più di 40 milioni di sfollati. I motivi che spingono donne e uomini a mettersi in cammino sono sempre più diversi. Alle guerre e alle persecuzioni politiche si è sovrapposto un vero e proprio catalogo di condizioni che mischiano culture e violenze, persecuzioni religiose e miserie, devastazione del territorio e cambiamenti climatici. A fronte di questa profonda trasformazione geo-politica del mondo, il diritto d’asilo, così come concepito in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ha subito non poche sollecitazioni e ha attraversato diverse crisi.

Si tratta di una storia lunga, che ha però conosciuto alcune importanti accelerazioni proprio a ridosso dei nostri giorni, con modifiche repentine e contraddittorie. Certo, nel 2004 i paesi europei si sono dotati di un quadro comune di riferimento con l’emanazione di una direttiva via via recepita dagli stati e rimasta invariata fino al 2011. Ma non è dal punto di vista giuridico-legislativo che sono arrivate le metamorfosi di cui parliamo. È con la stagione degli sbarchi che ha caratterizzato la seconda metà del decennio scorso, e in maniera ancora più rilevante i primi anni di questo decennio, che il diritto d’asilo, nella sua capacità di divenire elemento fondante di coesione sociale e solidarietà, è stato messo duramente alla prova.

Oggi, a fronte di un’Europa circondata e talvolta attraversata da miserie e conflitti, da instabilità politica e barbarie medievali, l’istituto dell’asilo sembra essere entrato nella sua crisi più profonda, spogliato del suo carattere soggettivo e universale per essere progressivamente relegato dentro i confini della concessione umanitaria, condita al più da uno spirito caritatevole e misericordioso, incapace di esprimere lo slancio con cui era stato pensato agli albori.

Una crisi diventata un nervo scoperto per l’Europa contemporanea, che di fronte alla pressione migratoria sta rivelando il suo potenziale disgregante, percorrendo in lungo e in largo le lacerazioni di una società che nonostante il suo secolare rapporto con le migrazioni si ritrova oggi impacciata ad affrontarle.
L’Italia, con i suoi poco più di 250 mila migranti sbarcati tra il 2014 e i primi mesi del 2015, molti dei quali hanno immediatamente raggiunto con fatica altri stati europei, sembra percorsa da continue scosse irrazionali.

Le lacrime per il naufragio del 3 ottobre 2013, quando a Lampedusa persero la vita 368 persone seguite da altre nei mesi successivi, hanno lasciato presto il posto a pulsioni molto meno nobili che puntualmente affiorano a ogni sbarco, a ogni nuova fotografia.
Nonostante le operazioni di pattugliamento messe in campo sotto diverso nome, quel mare continua ancora oggi a consegnare corpi e relitti, vittime, prima ancora che delle onde, dell’incapacità di immaginare un modo diverso di rapportarsi a chi bussa alle porte del Vecchio Continente. Eppure i numeri, pur alti rispetto al passato, ci dicono che l’Europa non ha nulla da temere. Semmai, ha bisogno
di ripensarsi e di riattrezzare i suoi confini esterni costruendo altre possibilità di arrivo per chi fugge. E probabilmente di riorganizzarsi anche al suo interno smontando quelle incomprensibili gabbie che ancora impediscono ai migranti in cerca di protezione di muoversi legalmente verso paesi diversi da quello di ingresso.

Per farlo, l’Europa ha bisogno di risolvere prima di tutto una sua strutturale contraddizione. L’Unione, nata dalle ceneri del più grande conflitto mondiale, si presentava allora al mondo come presidio dei diritti e garante della loro universalità. Oggi questa sua missione fa i conti con uno dei pilastri portanti su cui l’Europa stessa ha fondato la sua unità: quello della protezione delle frontiere.

Ma questa coabitazione risulta sempre meno compatibile, ed è forse arrivato il momento più delicato, quello in cui sarà possibile capire se anche la promessa europea verrà definitivamente meno.
Anche per questo, per non essere tradite, le tante Etenesh che ancora guardano con speranza da questa parte del Mediterraneo hanno bisogno di tutti noi.


 

Nicola Grigion, giornalista, direttore di Melting Pot Europa dal 2007 al 2014, è tutor territoriale per il Servizio Centrale del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR).

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