Interviste

L’invasione degli scarafaggi… a teatro!

Ha debuttato il 16 marzo a Carbonara (Bari) lo spettacolo di marionette tratto da L’invasione degli scarafaggi – La mafia spiegata ai bambini, di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso.

Per l’occasione abbiamo voluto rivolgere una domanda a Lelio Bonaccorso su che impressione ha avuto nel vedere trasposti i suoi disegni in uno spettacolo di marionette.

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Marco Rizzo ospite di Concita de Gregorio a Pane Quotidiano

A Castelgallo, un colorato paese affacciato sul mare e abbracciato dalle montagne, si è diffusa una strana malattia. Gli abitanti hanno cominciato a trasformarsi in disgustosi scarafaggi. Ma c’è un filo conduttore tra le vittime di questo morbo: tutti hanno compiuto degli atti criminali, piccoli e grandi. Spetterà a un giovanotto coraggioso, Alberto, ricordare ai suoi compagni e agli altri abitanti di Castelgallo che è possibile combattere quella malattia… e che anzi, conviene! (altro…)

Giovani BeccoGiallo crescono

 

Una piccola intervista a Sara e Nicolò: due giovanissimi disegnatori BeccoGiallo, entrambi usciti dalle scuole comics ed autori – insieme agli sceneggiatori Luca Amerio e Luca Baino – del fumetto L’AQUILA 3.32, dedicato al terremoto del 2009 e al dibattuto post-terremoto.

Entrambi gli autori sono con noi a Lucca Comics & Games, e speriamo che la loro esperienza di studenti ora fumettisti a tutto tondo sia di incoraggiamento a chi sta facendo lo stesso percorso.

1. In poche parole, raccontate com’è essere uno “studente di fumetto”?
NICOLÒ: Non è sempre facile e in diverse occasioni risulta anche piuttosto faticoso. Ma in sé è qualcosa che racchiude due delle cose che amo fare di più: disegnare e inventare storie; mi fa sentire gratificato vedere un mio lavoro finito (sebbene io diventi subito dopo molto autocritico, ma questo credo valga per chiunque) e sapere che qualcuno possa emozionarsi a leggerle.

SARA: Essere uno studente di fumetto è un’esperienza unica e personale, non impari nozioni generiche scritte su libri ma assimili e applichi le conoscenze di tutti coloro, colleghi e maestri del fumetto, che ti circondando, giorno per giorno. È un percorso che affronti da solo ma al contempo assieme a quelli che lo stanno percorrendo in parallelo, non in competizione ma praticamente a braccetto. Non smetterai mai di essere uno “studente di fumetto”, più che altro perché tu stesso non smetterai mai di ritenerti tale, ed è proprio questo il bello.

 

2. Come è nata l’avventura con BeccoGiallo?
NICOLÒ: Quando incontrai Federico Zaghis all’esame finale del corso di fumetto all’Accademia Internazionale di Comics di Torino, in cui presenziava come commissario esterno: a quanto capii, gli piacque il mio stile. Mi rincontrò alla fiera del fumetto di Lucca nel 2013 per lasciarmi i suoi contatti e qualche mese dopo mi propose di disegnare una storia per loro.

SARA: È stato un colpo di fulmine, saltando i primi appuntamenti e anche i primi baci: un giorno mi sono svegliata con in mente di passare un’estate tranquilla e mi sono addormentata con in testa tutto un programma di scadenze. Un messaggio inaspettato con una richiesta importante da parte di Luca Baino e tempo ventiquattr’ore ero dentro. Fantastico!

 

3. Come è stato, a livello tecnico ed emotivo raccontare a disegni una cosa delicata come il terremoto e post-terremoto di L’Aquila?
NICOLÒ: All’inizio è stato complicato, perché prima non avevo mai lavorato su fatti di cronaca, ma ho cercato di essere il più fedele possibile nelle rappresentazioni della città, specie per le zone principali (la piazza del Duomo e le tendopoli, ad esempio): era necessario, sia ai fini della storia che, e soprattutto, per rispetto agli aquilani. Stessa cosa dicasi per l’aspetto emotivo: sebbene il mio sia un punto di vista del tutto esterno spero di aver rappresentato al meglio anche quest’ultimo.

SARA: Ammetto di non essermi informata in precedenza sull’accaduto, se non visualizzando le notizie che passavano sotto gli occhi di tutti (quindi la punta dell’iceberg): durante la lavorazione, come la storia e i personaggi si evolvevano, io stessa venivo trascinata nel vortice degli eventi. Una delle difficoltà maggiori che ho avuto è stato il timore di non rendere il giusto onore attraverso il disegno, è stata dura dichiarare “finita” ogni tavola. Non voglio essere ipocrita e definirmi ora attivamente coinvolta nei fatti, ma di sicuro la vicenda mi ha lasciato una traccia che difficilmente dimenticherò.

 

 

I molteplici volti dei centri sociali italiani, oltre gli stereotipi

“Auspico che tutti i candidati a sindaco della città si esprimano sulla volontà di chiusura del centro sociale, ancora oggi centro di illegalità.”

Queste parole, proferite da un Assessore provinciale alla sicurezza, risalgono a meno di dieci giorni fa: rappresentano l’idea che più o meno consciamente l’opinione pubblica si è fatta rispetto all’universo dei centri sociali. Una realtà dinamica e mutevole, discussa e attivamente presente nelle cronache nazionali e locali ma che nella maggioranza dei casi è conosciuta solo tramite ciò che i mass media decidono di raccontare.

 

 

Claudio Calia, autore e militante, ha realizzato una guida a fumetti per accompagnarci alla scoperta di queste realtà autogestite, oltre lo stereotipo: un viaggio a tappe che offre i cenni storici fondamentali e le principali coordinate territoriali per orientarsi e scoprire le lotte e le iniziative culturali, le persone e le proposte che formano il vero volto dei centri sociali del nostro Paese.
Il volume è corredato di un inserto fotografico a colori ed è arricchito da una prefazione, naturalmente a fumetti, di Zerocalcare.

Il volume è attualmente disponibile in libreria oppure, con il 15% di sconto, sul nostro store online.

Intervista inedita a Pietro Orlandi, a 30 anni dalla scomparsa di Emanuela

Pietro Orlandi è il fratello di Emanuela, scomparsa senza un perché, o con troppi perché, il 22 giugno 1983. Da quel giorno lotta per la verità tra silenzi, depistaggi e indifferenza. Alex Boschetti l’ha intervistato per chiudere il racconto a fumetti di quella vicenda con la sua testimonianza, andando a esplorarne tutti gli aspetti. Ne riportiamo qualche stralcio significativo:

Di fatto [a Papa Ratzinger] è stato impedito [di parlare del caso], ma questo certo non giustifica il suo comportamento.
Nel 2008 a 25 anni dal rapimento gli fu chiesto di ricordare Emanuela con una preghiera durante l’Angelus. Il Papa allargò le braccia e disse “devo chiedere”, e naturalmente durante l’Angelus non disse nulla. Di recente in occasione delle due manifestazioni a San Pietro, aspettavamo una sua parola ma dalla Segreteria di Stato lo sconsigliarono di fare accenno al caso proprio perché io parlavo di omertà del Vaticano (il documento della Segreteria di Stato è riportato nel libro di Nuzzi).
Ratzinger ai tempi del rapimento era uno stretto collaboratore di Giovanni Paolo II, si intrattenevano spesso a cena insieme, dubito che non abbiano mai parlato di questa vicenda e io sono convinto che Wojtyla fosse a conoscenza di quanto accaduto ad Emanuela.

Se il Vaticano ha assunto un certo tipo di atteggiamento per trent’anni cercando di far dimenticare questa vicenda è perché evidentemente la verità è così pesante per la Santa Sede che preferiscono subire le critiche dell’opinione pubblica piuttosto che impegnarsi per fare emergere la verità. Emanuela purtroppo è un tassello di un sistema di ricatti che coinvolge persone interne ed esterne al Vaticano. Io non conosco i responsabili del sequestro, ma sicuramente chi ha occultato e continua ad occultare la verità sulla scomparsa di Emanuela.
È un “sistema” che coinvolge Stato, Chiesa, Mafie e Massoneria e sicuramente la sepoltura di De Pedis nella Basilica di Sant’Apollinare è un esempio eclatante di questo legame. Sepoltura mai chiarita né da parte dello Stato vaticano né di quello italiano. C’è un filo che lega la morte di Papa Luciani, l’attentato a Giovanni Paolo II, la morte di Calvi e la scomparsa di Emanuela.
L’omertà del Vaticano è sempre stata sostenuta nel tempo da uno Stato italiano sempre più succube del potere della Chiesa. Non ho mai incontrato nessuno, in Italia, a cominciare dai politici, dalla destra alla sinistra, disposto a dire e fare cose che possano mettere in difficoltà i propri rapporti con la Santa Sede, perché, alla fine, il Vaticano fa comodo a tutti e tutti fanno comodo al Vaticano.

Secondo me, se la Banda della Magliana e in particolare De Pedis hanno avuto un ruolo in questa vicenda, è stato un ruolo di manovalanza. Sicuramente i mandanti sono altri. Credo che ad un certo punto si volesse chiudere con una verità parziale: Emanuela morta in una betoniera e unici responsabili, entrambi morti, De Pedis e Mons. Marcinkus. In questo modo si proteggeva chi doveva essere salvato e che probabilmente occupa ancora oggi posti di rilevanza all’interno di istituzioni vaticane e non solo.
Se si fosse trattato, come qualcuno asserisce, di una questione semplicemente economica tra Banda della Magliana e Vaticano, io credo sarebbe stata già chiusa da tempo e sicuramente il Vaticano sarebbe riuscito a scrollarsi dalle spalle questo peso che li costringe ad un atteggiamento ambiguo da 30 anni.

Festa delle Donne? La storia di Carmela Cirella

8 marzo, festa della Donna. Ma cosa c’è da festeggiare? Ne abbiamo parlato con Alessia Di Giovanni, che ha sceneggiato con disegni di Monica Barengo “Io so’ Carmela“, la storia di Carmela Cirella, abusata dagli uomini e ignorata dalle istituzioni.

Qual è la situazione attuale delle donne in Italia?
Io sono cresciuta in una famiglia dove mio padre avrebbe preferito avere un figlio un maschio e non una femmina, ma appartengo a una generazione per cui uomo equivale a donna. Scelgo chi sono, cosa e chi mi piace essere. Non ci sono ruoli precostituiti uomo-donna. Io divento quello voglio. È la forza della cultura. Non sono obbligata a stare in coppia, ad avere figli, a essere di supporto di un uomo. Ecco, qualunque sia la mia scelta di vita come persona, però, lo Stato deve sostenermi. Se, per esempio, voglio avere un figlio, dovrei poterlo avere, non rinunciare alla maternità perché non saprei come mantenerlo o come prendermi cura di lui perché sono costretta a smettere di lavorare. Chiediamoci perché ci sono pochi ruoli di potere effettivo in mano a donne. Ecco: è su quel perché che si dovrebbe cominciare a lavorare.

Quando la violenza colpisce le donne, dov’è lo Stato?
Sembra esserci una voragine la donna che denuncia la violenza e le istituzioni a cui si rivolge. Per una donna è come entrare in un secondo incubo. Se denuncio chi mi ha strappato tutto quello che sono e che ero e che sarò, davanti mi ritrovo un muro fatto di assistenti sociali di cui ignoro la competenza e un processo che durerà anni e anni, alla fine dei quali non so neppure se mai otterrò giustizia. È surreale che dopo aver subito un abuso, quando una donna ha perso tutto, si ritrovi a lottare anche per difendersi da chi per legge dovrebbe aiutarla. Bisognerebbe avere una forza che si è appena persa. Come è successo a Carmela – che giovanissima non ha retto a questa situazione e si è suicidata. Attualmente l’unico aiuto concreto e attivo per chi subisce abusi sono i centri antiviolenza. Per questo abbiamo scelto di elencarli in fondo al libro. È uno strumento per le donne.

Perché è importante raccontare e non dimenticare una storia come quella di Carmela?
Dopo le ripetute violenze Carmela e la famiglia di Carmela si sono affidati allo Stato, alle Istituzioni, alla Polizia, ai Servizi Sociali. Si sono affidati a uno Stato che li ha traditi a più livelli: prima non hanno creduto alla sua storia, poi l’hanno trattata con sufficienza. E Carmela ha visto in quell’atteggiamento la conferma della sua solitudine di fronte a una montagna gigantesca che NON poteva superare da sola. La montagna della sua violenza. Come se fosse stata lei a cercare una situazione pericolosa. Come se si fosse trattato di un episodio banale. La cosa peggiore che può succedere a chi subisce violenza è non vedere riconosciuto il completo sconvolgimento che la violenza comporta. È una vita falciata via. Come morire e rinascere in qualcosa che non riconosci.
Non ti appartieni più. Ecco perché è importante tenere sempre a mente la storia di Carmela. Per cambiare le cose. Carmela si è suicidata perché il sistema giuridico e di assistenza sociale in Italia non funziona. La sua morte è un gesto di ribellione nella speranza che il sistema cambi a cominciare dalla cultura della donna e dello stupro.

Te la senti comunque, vista la giornata, di lasciare un messaggio positivo alle donne?
Questo lo dico prima di tutto a me stessa: smettila e smettiamola di etichettare sempre tutto. Come dobbiamo essere, come l’amore, la nostra vita, il nostro lavoro, le relazioni dovrebbero essere. Basta! Siamo noi che decidiamo il significato delle parole del nostro dizionario personale. E la prima parola da cercare nel nostro dizionario è dignità.

Intervista a Lise e Talami, autori di Quasi Quasi Mi Sbattezzo

Anche papa Ratzinger ha ceduto alla pressione senza sosta dell’indomabile Sbattezzatore, a quanto pare. E proprio in questo giorno così speciale per la chiesa (ma soprattutto per chiunque altro), siamo andati a chiedere agli autori di Quasi quasi mi sbattezzo il perché delle loro azioni. Ne esce un quadro meno preoccupante del previsto…

>>> Partiamo dalla prima cosa che quasi tutti si chiedono appena sentono parlare di questo argomento per la prima volta. Perché sbattezzarsi, se non si è più credenti? Che differenza fa?

La risposta è scema: non c’è un buon motivo e sono tutti buoni motivi.

Per una sintesi seria sulla questione vi rimandiamo a questa pagina, dove i motivi sono spiegati senz’altro meglio di come potremmo spiegarli noi.

Per quanto ci riguarda, Alberto si è sbattezzato per “tutelarsi” in caso di morte: lo sbattezzato non può avere il funerale in chiesa. Voleva essere sicuro che, quando morirà, non ci sarà un prete a dire l’ultima parola su di lui.

In generale comunque il motivo più convincente è forse quello legato alla “sudditanza” del battezzato rispetto alle gerarchie della Chiesa. Il Catechismo della Chiesa cattolica dice esplicitamente che il battesimo «incorpora alla Chiesa» e che «il battezzato non appartiene più a se stesso […] perciò è chiamato […] a essere “obbediente” e “sottomesso” ai capi della Chiesa». La cosa sembra priva di conseguenze, ma non è così. È famoso il caso dei coniugi Bellandi – di cui parliamo più diffusamente nel libro – che, nel 1958, per essersi sposati civilmente, vennero definiti pubblici concubini dal vescovo di Prato. I Bellandi avevano un negozio che fu boicottato dai fedeli. Quando fecero causa al vescovo, la persero perché, da battezzati, continuavano ad essere sottoposti all’autorità ecclesiastica.
Certo, stiamo parlando degli anni 50, ma le leggi nel frattempo non sono cambiate.

È chiaro quindi che più gente si sbattezza e più la cosa da fenomeno “goliardico” diventa significativo. Che lo sbattezzo dia fastidio alla chiesa lo dimostra il fatto che di recente il papa ha modificato il diritto canonico per impedire agli sbattezzati di sposarsi in chiesa. Per farla breve e non entrare nel tecnico: Alessandro, che non è battezzato, se volesse potrebbe sposarsi in chiesa con il rito misto; Alberto che è sbattezzato, no.

Tuttavia il punto non è questo: a noi sembra che gran parte di quelli che pongono la questione dell’utilità dello sbattezzo abbiano fondamentalmente perso le speranze e si siano rassegnati a vivere in un paese in cui il concetto di laicità è quantomeno “elastico”. È una posizione cinica, che non accettiamo, ma che ha un fondamento: lo sbattezzo in sé non serve a nulla se non è la fine e/o l’inizio di un percorso personale/politico.

>>> Veniamo a voi. Chi è Beto? Quanto della storia raccontata in QQMS è esperienza reale?

La storia di Beto è quella di Alberto. Ci siamo basati, per scriverla, sui suoi appunti e suoi suoi ricordi. Quello che abbiamo modificato (sarà un 10%) l’abbiamo fatto per esigenze narrative e di sintesi. Presentando il libro in giro per l’Italia, comunque, abbiamo notato che la storia di Beto è anche quella di migliaia di persone che hanno deciso di abbandonare la chiesa cattolica: le stesse incomprensioni e le stesse difficoltà.

>>> Ci sono altri episodi tragicomici legati allo sbattezzo che non siete riusciti a inserire nel libro, o di cui avete sentito parlare indirettamente? Sfogatevi pure!

I metodi che utilizzano i preti per non sbattezzare le persone sono diversi, alcuni fantasiosi. Alcuni evitano di rispondere, altri (illegalmente) avvertono la famiglia, altri ancora chiedono di ripensarci una quindicina di giorni, oppure dicono di passare di persona. Un prete, non ci ricordiamo di dove, arrivò a mandare in risposta una lettera in latino.

Dopo aver pubblicato il libro poi ce ne sono successe diverse: siamo stati intervistati dalla rivista dei dehoniani “il Regno”, che ha usato un po’ allegramente le nostre risposte; siamo stati invitati a un piccolo festival letterario in provincia di Venezia – ma quando l’assessore che gestiva i fondi ha scoperto l’argomento del libro l’invito è stato ritirato; abbiamo ricevuto una lettera molto lunga e articolata di una fedele che ci chiedeva in definitiva di non mischiare la madonna con i bruscandoli…

>>> Cosa vorreste dire a chi si approccia al vostro libro con pregiudizio?

Di provare lo stesso a leggere il fumetto: è stato scritto proprio per lui.

L’invasione degli scarafaggi: intervista al duo Rizzo/Bonaccorso

Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso hanno molto da dire sulla mafia. E l’hanno già detto in molti modi. Quello che forse ancora mancava era un libro per spiegare la mafia ai bambini (ma non solo). Rimedieranno tra pochi giorni con “L’invasione degli scarafaggi“, un’ottima occasione anche per far loro qualche domanda e provare a capirne di più.

> Come nasce l’idea di spiegare la mafia ai bambini?

MR – In realtà, con i miei libri precedenti, ho avuto diverse occasioni di confronto con ragazzi di tutte le età. Peppino Impastato è stato un successo trasversale, letto nelle scuole elementari come nelle medie o nelle università. Abbiamo incontrato bambini e ragazzini e provato a raccontare quei personaggi che combattevano mafia e malaffare. Con L’invasione degli scarafaggi abbiamo voluto metterci alla prova, lavorando sul linguaggio e sulle metafore. Abbiamo voluto scrivere una fiaba (come tutte le fiabe adatta ai lettori di tutte le età) che spiegasse cosa è quella mafia combattuta da Impastato, Rostagno e tanti (per fortuna) altri. Per una volta, senza paternalismi, per carità, abbiamo provato a chiamare come interlocutori quei bambini a cui non ci siamo mai rivolti direttamente.

LB – Fino ad ora avevamo sempre raccontato a fumetti storie con un taglio più maturo, più adulto. Adesso sentivamo l’esigenza di di lanciarci in un’esperienza che potesse permetterci di usare l’illustrazione per bambini, un mezzo differente rispetto al fumetto. Inoltre sentivamo la responsabilità di continuare quell’opera di divulgazione e consapevolezza che abbiamo spesso portato nelle scuole primarie, ed andare a raccontare una storia direttamente ai bambini. Sono loro la chiave di volta per una vera evoluzione sociale…

> Quali scelte avete effettuato a livello di sceneggiatura e grafica per rendere il racconto efficace e coinvolgente?

MR – Non ho preparato una vera e propria sceneggiatura: L’invasione degli scarafaggi è un libro illustrato con degli “innesti” di fumetto. Quindi ho scritto un racconto, e passo passo intervenivo sul testo estrapolando le scene più significative. Poi le ho descritte, inserendole nel racconto e passando il tutto a Lelio. Ho giocato con le metafore. Al di là della presenza di animali antropomorfi (a parte il caso degli scarafaggi è solo un vezzo artistico) mettiamo in parallelo la mafiosità quotidiana di un microcosmo come una scuola, con bullo e vittime, con quella di un piccolo centro, che potrebbe essere dovunque e in qualunque tempo, sottomesso da boss e criminali.

LB – Per quanto mi riguarda il poter raccontare a colori in maniera tradizionale (acquerello e matita colorata) è stato catartico. Il colore, la tinta calda che ho usato, diventa “accogliente e coinvolgente”, una specie di mondo edulcorato in cui non ti immagineresti mai di trovare un mafioso… più o meno la stessa sensazione che provi nell’incontrare una persona del genere nella vita di tutti i giorni. Una sensazione spiazzante. Inoltre ho potuto sperimentare, anche grazie a Marco, delle trovate narrative interessanti, che delineassero marcatamente i personaggi e gli ambienti. Ogni figura vive la sua vita indipendentemente dal contesto, ritrovandosi poi improvvisamente al centro della scena. Marco è bravo nel dare consistenza a ciò che scrive, riesce ad entrare nella storia e farti immediatamente visualizzare la scena, in maniera sintetica, funzionale ed emotiva.

> Se doveste spiegare la mafia ai bambini non in un libro ma in una riga… cosa direste?

MR – Ti cito Mauro Rostagno, laconico ma efficace: “La mafia è il contrario della libertà”.

LB – La mafia è quella cosa che non vi permetterà mai di realizzare i vostri sogni. È una macchina mangia-sogni. Non permettetegli mai di esserlo con voi.

> Con gli adulti invece abbiamo perso le speranze o vedete segnali positivi? Come vivete la situazione siciliana recente?

MR – Quante cartelle ho? Alla caravana antimafia di Libera Trapani, ieri, Salvatore Inguì, responsabile di Libera Marsala ha detto: “Siamo più di dieci, quindici anni fa”. Già questa è una piccola vittoria. Al di là delle riproposizioni retoriche e dovute, l’antimafia con tutto il suo corollario esiste ed è viva. Forse, volendo essere pessimisti, è una minoranza: i siciliani hanno preferito tre volte su tre un Presidente di Regione poi finito indagato e in un caso arrestato per mafia (due volte Cuffaro, poi Lombardo). La cronaca è piena di casi di voti di scambio, appalti truccati, prebende elettorali, manovrine ad alti e bassi livelli. Eppure c’è chi lotta: insegnanti, poliziotti, parroci, giornalisti, magistrati, imprenditori onesti. Che sia una minoranza o meno, è da qui che bisogna cominciare.

LB – Inutile mettere a fuoco solo il lato negativo e pessimistico delle situazioni. Ovviamente nemmeno negare la mafia, e soprattutto la mafiosità sarebbe una buona scelta, anzi sarebbe nefasto. Credo che in tutte le situazioni difficili, si manifestino le persone più valide, o meglio il nostro lato migliore, ignoto a volte a noi stessi, e sappiamo benissimo che la cura sta sempre nella piaga, è un fondamentale momento di consapevolezza dunque. È l’esperienza che ti forgia.
Credo comunque che, alla radice di tutto, ciò che alimenta il “sistema” è un profondo egoismo, menefreghismo e in generale una banale superficialità. Ecco perché le mafie trovano terreno fertile ovunque, da nord a sud. È la gente che rende la mafia importante, altrimenti nemmeno ne parleremmo, e di contro, non esisterebbe nemmeno questo libro.
Dobbiamo fare appello alle qualità determinanti del nostro essere umani, sensibilità, intelligenza e solidarietà. Se capiremo questo, tutto verrà da sé, inevitabilmente.
Pessimista? Direi di no, mi guardo dentro e mi chiedo cosa posso cambiare io intanto. Questo mi rende anzi profondamente ottimista, siciliano nel senso più autentico.

Francesco Niccolini e le disavventure di Enrico Mattei

Francesco Niccolini è drammaturgo e sceneggiatore, da molti anni studia e scrive per Marco Paolini e per molti altri attori e registi del teatro italiano. Collabora con Radio3 e con la Televisione Svizzera Italiana. Simone Cortesi è un talento emergente del fumetto indipendente italiano. Insieme hanno realizzato “Enrico Mattei, vita, disavventure e morte di un cavaliere solitario“, che abbiamo pubblicato da pochi giorni.

Vista la complessità della tematica, abbiamo pensato di chiedere a Francesco qualche delucidazione sul suo lavoro di ricostruzione a fumetti…

> Da dove nasce la necessità di scrivere un libro su Enrico Mattei?

Studio la storia di Mattei dal 1998, quando con Marco Paolini ci mettemmo a lavorare sui disastri della chimica a Porto Marghera. Ho avuto la fortuna di entrare in contatto con persone che lo conoscevano e, forse, con la persona che meglio di ogni altro sa cosa è successo il 27 ottobre 1962, ovvero Eugenio Cefis. Ho potuto consultare i materiali del PM Calia che dal 1995 ha riaperto l’inchiesta scoprendo le tracce della possibile esplosione, e di molte manovre di insabbiamento alterazione e cancellazione delle prove.
Tutto questo mi affascina e non mi passa la voglia di trovare modi di raccontare la sensazione di smarrimento di fronte a una vita assolutamente fuori da ogni norma, a una morte annunciata e a una delle più riuscite opere di cancellazione di ogni traccia di verità: a tutt’oggi io non saprei dire che ha ucciso Mattei e con quale preciso movente. La sensazione di impotenza che mi genera è una sorta di vertigine che mi ricorda la disperata necessità di questo Stato di affrancarsi dai poteri deviati e dagli interessi privati e stranieri come unica speranza per non affogare nella palude della propria corruzione.

> Sei abituato a muoverti tra diversi linguaggi, come mai sei arrivato anche al fumetto?

Ho raccontato Mattei in teatro, poi alla radio: una graphic novel mi permette cose diverse e soprattutto di raggiungere una diversa fascia di pubblico.

> Ci sono elementi di questa vicenda che non sei riuscito a inserire nel libro, ma che meriterebbero di essere approfonditi?

Una giornalista de “L’Espresso” mi ha rimproverato di non aver approfondito l’ambigua capacità di corruzione che Mattei applicava (e forse inventò) rispetto al sistema politico italiano. Probabilmente ha ragione. L’incorruttibile Mattei aveva la forza e il denaro per corrompere molti. Eppure continua a sembrarmi quasi irrilevante in un mondo di corrotti e corruttori, di interessi privati e di un uso improprio della cosa pubblica.

> Dopo questa prima esperienza tornerai a occuparti di fumetto? Hai già qualche idea?

Con BeccoGiallo stiamo lavorando a una graphic novel sulla tragedia del Vajont. La sceneggiatura è pronta e Duccio Boscoli, eccellente illustratore milanese, sta realizzando le tavole. Da qualche giorno poi ho un’idea nuova, ma è troppo presto per svelarla.